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L'obiettivo di un intervento
psicologico non può essere quello di eliminare l'ansia: oltre ad
essere impossibile da realizzare, sarebbe altamente
disfunzionale al nostro benessere psicofisico e sociale.
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Per quanto dolorosi e
invalidanti possano essere i sintomi dell'ansia, lo psicologo ha
il compito di aiutare la persona ad accogliere,
ascoltare, leggere e interpretare tali
segnali.
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Ogni sintomo ha un suo
significato ancorato al contesto in cui il soggetto è inserito.
E’ importante recuperare l’oggetto reale delle nostre paure e
ricollegarlo a situazioni, esperienze, ricordi e persone che
fanno parte della nostra vita.
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Nel caso dell’ansia è
opportuno lavorare su sé stessi nella direzione di imparare a
non essere pretenziosi e intransigenti. Ognuno dovrebbe vivere
il proprio presente in relazione alle risorse e ai limiti
personali e ambientali, che in altri termini significa fare le
cose per come si è in grado di farle non per come dovrebbero
essere fatte. In questo senso la sospensione dell’azione ci può
regalare uno stato di pace.
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La soluzione non sta nel
soddisfare le proprie (e degli altri) aspettative a tutti i
costi, ma nell’essere presenti e consapevoli nelle azioni che
intraprendiamo.
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Soddisfare le aspettative
significa sforzarsi di voler essere un modello di “bravura” agli
occhi degli altri, un punto di riferimento, una persona sulla
quale poter contare, che sa sempre cosa fare. La preoccupazione
dominante diventa essere in grado di accontentare tutte le
richieste da parte delle persone che si amano. Assolvere a
questa missione può farci perdere il contatto con i nostri veri
desideri, che tendiamo a trascurare fino a non riconoscerli più,
fino a considerarli come un elemento di disturbo, una minaccia
per la nostra stabilità sociale e affettiva.
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In realtà è proprio quando
ci imponiamo di andare avanti nella stessa direzione a tutti i
costi che la nostra psiche si ribella e richiama tutta la
nostra attenzione attraverso l’esplosione dei sintomi.
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Dobbiamo accogliere l’ansia
come un consiglio che ci viene dato dal nostro corpo che in
qualche modo non vuole più sottostare a quel modello di
perfezione che ogni giorno ci sforziamo di essere.
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Recuperare un contatto con
noi stessi, con i nostri limiti e le nostre imperfezioni,
equivale a recuperare un rinnovato senso di realtà, di pace
interiore, di autoefficacia. Significa tornare ad essere
protagonisti consapevoli della nostra esistenza.
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Non si tratta di un processo
semplice da realizzare. Le maggiori difficoltà si riscontrano
maggiormente nel fatto che, per quanto dolorosi e faticosi da
mantenere, gli equilibri consolidati nel tempo, compresi i
sintomi e i meccanismi di difesa, presentano un vantaggio
secondario: ci proteggono dall’angoscia che scaturirebbe
dall’idea di cambiare, di mettere in discussione l’immagine che
si ha di sé stessi e degli altri. Si ha paura di restare soli,
di non essere più amati e apprezzati da nessuno.
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In tal modo si continuano a
impiegare notevoli energie nel mantenere la propria esistenza il
più possibile conforme ai valori collettivi che finiscono col
diventare rappresentativi ed esaustivi della nostra intera
persona, spesso in modo del tutto inconsapevole.
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L'impressione che gli altri
hanno di noi è sicuramente un elemento molto importante nella
società umana, ma non dobbiamo permetterci di vivere solo
per poter dimostrare di essere come gli altri si aspettano.
Dobbiamo dare il giusto peso soprattutto ai nostri bisogni
interiori, arricchirci di quelle soddisfazioni che magari per
altri contano poco ma che per noi sono linfa vitale.
Abbandoniamo l’idea di dover apparire per poter essere,
svestiamoci da quella maschera sociale che giorno dopo giorno
diventa sempre più pesante da indossare, diamo più spazio ai
nostri desideri, prestiamo un ascolto costante ai nostri
bisogni, non temiamo di metterci in gioco e poniamoci
nel mondo con una nuova consapevolezza di noi stessi, pronti a
nutrirla e a sostenerla entro un processo di continua
riscoperta.
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