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Condannata per sempre. Il caso di M.





M. è una ragazza di 18 anni. Mi contatta perché ogni sera si ritrova seduta sul letto a piangere, con la sensazione di non riuscire a respirare e con fitte intercostali, accompagnate da un forte vissuto di inadeguatezza, veicolato da pensieri intrusivi del tipo: “Sono malata mentalmente”; “Non sarò mai normale”; “Non avrò mai una vita felice”; “Sono condannata per sempre ad avere una testa che non funziona”.
Inoltre sostiene di avere dei gravi problemi di coppia.

E’ proprio dal primo incontro che M. fa del suo rapporto di coppia l’argomento esclusivo del colloquio.
Ha una relazione semi-clandestina con un uomo di 45 anni.
A detta della ragazza, la differenza di età starebbe a certificare la sua “anormalità”. La tesi alla base del suo ragionamento è: “Se fossi normale, non starei con un uomo così grande”.

Reagisce con stupore quando le faccio notare che la sua lettura non può essere così scontata, e inizia ad irritarsi quando affermo esplicitamente di non condividere nemmeno una parola di tale affermazione.

L’uomo in questione non è sposato e non ha figli. Non frequenta altre donne e sostiene di essere profondamente innamorato. Non è mai stato violento, neanche verbalmente. Lavora e ha uno stile di vita regolare. E’ sempre disponibile con M. e vorrebbe esserle accanto in ogni momento della sua vita, tanto che le ha parlato più volte del suo desiderio di creare una famiglia insieme.

M. dichiara di non essere innamorata e, in ogni caso, di non voler prendere minimamente in considerazione l’idea di matrimonio e figli.

Non riesce tuttavia a staccarsi da lui perché sostiene che la fa sentire bene, anche se non è in grado di spiegarmi in che modo, né riesce a riportare un solo esempio riferito ad un episodio realmente accaduto che possa rappresentare lo stare bene insieme.

Le faccio notare che, piuttosto che sentenziare su sé stessa e sul suo rapporto di coppia, servendosi di categorie sterili e stereotipate del tipo “normale/anormale”, sarebbe utile partire da una domanda: “Se non ne sono innamorata, perché sto con lui?”

Ad ogni modo, per quanto M. possa trovare difficile confrontarsi con una simile domanda, tale difficoltà, da sola, non basta a spiegare i sintomi descritti.

Sin dai primi incontri mostra resistenze nel parlare della famiglia.

Quando le chiedo informazioni sul padre, M. smette di parlare e non riesce a trattenere le lacrime.

Penso tra me e me che finalmente ci siamo, ma le crisi di pianto mi impediscono di poter indagare sulla figura paterna, men che meno sul rapporto padre-figlia.

Ogni volta che provo a fare un passo, M. dice che non sta piangendo per le mie domande, poi si irrigidisce e sostiene che secondo lei stiamo andando fuori strada, perché lei è venuta da me per affrontare un problema di coppia e io non la starei aiutando.

Vista l’intensa emotività che esplode appena si tocca l’argomento, e le evidenti difese messe in atto, decido di non forzare la mano e di rispettare i suoi tempi.

Un giorno però le faccio notare che, se puntualmente inizia a piangere ogni volta che evoco il padre, deve esserci un motivo, che meriterebbe di essere esplorato insieme.

Mi risponde che se ne rende conto, ma sostiene di non sapere perché piange.

E’ una prima ammissione, un primo segno di apertura.
Siamo ad un passaggio cruciale, che può rappresentare la svolta oppure la rottura della nostra relazione clinica.
Ne sono consapevole, ma sono costretto a tenermi le mie constatazioni, perché M. smette di venire in studio e non risponde più al telefono.

A distanza di sei mesi ricevo un SMS: “Dottore, sono M., si ricorda di me? Volevo sapere se è possibile riprendere gli incontri… sempre se per lei va bene. La prego, ho bisogno d’aiuto!”

Accogliere un “ritorno” implica un lavoro differente: bisogna essere più espliciti e direttivi, chiarire subito i punti forza del percorso precedente, ma soprattutto i punti deboli. Avere chiaro cosa è venuto a mancare, cosa non ha funzionato e domandarsi con la massima sincerità cosa potrebbe esserci di diverso questa volta.
M. mi ascolta attentamente; ha gli occhi bene aperti, l’espressione di ammirazione e accompagna con un cenno del capo ogni mia parola.
Attende che finisca di parlare e poi esclama: “Aveva ragione! Adesso sono pronta!”

Durante la sua infanzia, M. era stata abusata dal padre.
Seppur tardivamente, l’ammissione a sé stessa, l’apertura allo psicologo e la forte motivazione a parlarne, mi hanno permesso di intraprendere con M. un lavoro orientato alla elaborazione del trauma, che ha avuto la durata complessiva di circa un anno.

Contemporaneamente è stato possibile analizzare i risvolti dei principali elementi che ruotavano attorno al trauma.

Per motivi di privacy e di sintesi espositiva, riporto solo l’interpretazione legata alla scelta del partner.

In questo contesto il partner grande (di età) rappresentava un tentativo di compensazione.
Attraverso il controllo dell’uomo più grande di lei, esercitato con il suo fascino e la sua giovane femminilità, M. si illudeva di poter controllare l’immagine dell’uomo violento che in passato l’ha sovrastata con la sua grandezza.

La difficoltà nel separarsene ha un valore simbolico altrettanto forte.
M. doveva convincersi che il 45enne rappresentasse il motivo della sua sofferenza.
Se questa tesi fosse stata demolita (come ho provato a fare dai primi incontri), allora avrebbe dovuto ammettere che ciò che la faceva sentire diversa dalle altre, in realtà è l’aver subìto un abuso da parte di suo padre. E questo è un pensiero talmente angoscioso e inaccettabile che la sua coscienza lo ha rifiutato fino a negarlo e a rimuoverlo (e ha spinto M. a disfarsi dello psicologo).

Avendo preso contatto con i pensieri e i contenuti emotivi rimossi, il partner ha perso agli occhi di M. la sua funzione simbolica e con essa è venuta meno anche l’incapacità di separarsene.

M. ha lasciato l’uomo (vittima inconsapevole della storia di M.) e, dopo un periodo di solitudine, ha iniziato a frequentarsi con un suo coetaneo.
Si tratta di un ragazzo conosciuto al corso di laurea in giurisprudenza che ha da poco iniziato a frequentare.
M. non sa se vorrà fare l’avvocato o intraprendere la carriera diplomatica, ma è carica di entusiasmo e aspettative.
Ha iniziato a lavorare per contribuire alle spese universitarie e per concedersi qualche regalo.
Ha in programma uno stage all’estero e si sente come se fosse nata adesso: un bambino alla scoperta del mondo e delle sue potenzialità.

I sintomi che presentava al momento del primo contatto con lo psicologo sono spariti completamente.

Ad oggi M. può considerarsi una persona in salute.

Dottor Riccardo Cicchetti