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La scuola della vita


Il mio vecchio professore di Tecniche del Colloquio Psicologico, durante una lezione, ci pose una domanda insolita:

- Se uno psicologo sta al bar, che fa? -

Le risposte furono tutte orientate alle tecniche da poco apprese:

- Interpreta il linguaggio non verbale del barista! -
- Analizza le dinamiche di gruppo dei clienti! -
- Controlla i movimenti oculari del barista per sapere se sta mentendo! -
- La postura! Controlla la sua postura! -
- Analizza il setting: l’arredamento, l’illuminazione, la musica! -
- Cerca di valutare la soddisfazione dei clienti per capire se il bar è di qualità! -
- Studia le coppie sedute al tavolino! -
- Cerca di capire chi è depresso! -
- Vede se qualcuno soffre di attacchi di panico! -

La risposta, a quel tempo, fu piuttosto deludente:

L'uomo mammone



- E’ mai stato fidanzato?
- Sì.
- Quando l’ultima volta?
- Sei mesi fa. Sono stato un anno con una ragazza ma poi l’ho lasciata.
- Potrebbe spiegarmi il motivo di questa decisione?
- Non era la persona giusta per me…  Mamma me lo aveva detto dal primo giorno!

Esistono uomini, anche ultraquarantenni, che vivono un rapporto morboso con le loro madri.
Fin dall’infanzia essi stabiliscono un legame simbiotico che nessun’altra donna in futuro potrà mai scalfire.
Comunemente sono definiti “mammoni”.

Usalo o lo perderai!




Tempo fa, un gruppo di psicologi italiani realizzò un esperimento con dei bambini a pochi giorni dalla nascita.
A intervalli regolari di tempo, un adulto si poneva di fronte al bambino ed eseguiva determinate espressioni facciali, muovendo occhi e bocca, ed emettendo dei vocalizzi.

Il risultato fu sorprendente: i bambini sottoposti agli stimoli audiovisivi presentavano nel tempo livelli di intelligenza superiori alla media.

Fino a qualche decennio fa si credeva che ogni individuo nascesse con un numero determinato di neuroni, destinato a diminuire in modo irreversibile lungo il naturale processo di crescita e invecchiamento.

Oggi sappiamo che adeguati stimoli ambientali non solo favoriscono lo sviluppo delle abilità cognitive nella fase di crescita ma ne contrastano il decadimento nella fase di invecchiamento.

Ti fai molti selfie? La verità è che non ti piaci abbastanza!



 
 Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un notevole incremento dell’utilizzo dei social network su scala mondiale, soprattutto grazie alla diffusione degli smartphone, che consentono di essere sempre connessi, ovunque ci si trovi.
Trascorrere gran parte del tempo sui social è ormai una prassi consolidata per la maggior parte delle persone.

Tali strumenti di comunicazione permettono di arricchire il testo con delle immagini, che spesso diventano il messaggio stesso.
Le foto che maggiormente canalizzano l’attenzione degli utenti sono i cosiddetti “selfie”

7 strategie contro l'alessitimia




Give sorrow words: the grief that does not speak
whispers the o’erfraught heart and bids it to break


 “Date parole al dolore: il dolore che non parla
bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”

Raccontarsi fa bene alla salute





E’ ormai risaputo che le esperienze traumatiche espongono gli individui ad un più alto rischio di malattia.

Nel corso degli anni diversi studi hanno evidenziato come la tendenza a non parlare delle proprie esperienze di vita più sconvolgenti possa portare ad una forma di inibizione comportamentale.

Mi sono bloccata con gli esami! La prego, mi aiuti!




E’ questo il testo riportato nel modulo di contatto del mio sito web con cui L mi chiede un appuntamento presso lo studio di psicologia ad Avezzano.

L è una ragazza estremamente avvenente e dall’aspetto curato in ogni minimo dettaglio.
All’inizio del colloquio assume una postura fiera e sprezzante, di chi ostenta sicurezza e vuole dimostrare che non ha nulla da temere. Tuttavia l’aspetto appare rigido e innaturale

C'è sempre un'emozione alla base di un comportamento. La storia di P. e C.





P e C, due coniugi non più giovanissimi, hanno un figlio, V, di tre anni, nato dopo sei di matrimonio.
Al momento in cui sono entrati nel mio studio è trascorso all’incirca un mese dal giorno in cui C, sconvolta, ha denunciato P per maltrattamenti nei confronti del figlio, a motivo dei quali il Giudice Minorile ha stabilito il momentaneo allontanamento del padre da casa.
Il clima del primo incontro è di grande tensione

Perché i sogni non si raccontanto





Più volte capita che persone conosciute al di fuori del contesto lavorativo, venute al corrente della mia professione, sentano l’esigenza di raccontarmi i propri sogni, chiedendomene una subitanea interpretazione.
Magari ci si trova in compagnia di fidanzati, familiari e/o amici, in un contesto pubblico e affollato.

Ebbene, permettetemi di dire: non funziona così

Sulla violenza nella coppia




Nel corso di conferenze, seminari, incontri a tema e colloqui in studio, le osservazioni più comuni che mi vengono mosse, quando affronto il tema della violenza nella coppia (meglio nota come “violenza domestica”) vertono principalmente su un unico aspetto:
“Perché la donna non si ribella?”
“Perché accetta tutto questo passivamente?”
“Perché non lo lascia?”
“Perché non si difende?”

L'amore che trascende i bisogni. La storia di K e B





“Buonasera, signor K. Nella sua email richiedeva una consulenza di coppia, come mai è venuto da solo?” domando al signor K.

Lui allarga le braccia sconsolato e in cerca di conforto risponde sospirando:
“Eh… che vuole che le dica, B è fatta così. Arriva sempre tardi agli appuntamenti e non si può fare affidamento su di lei”

“Non siete partiti da casa insieme?”

Condannata per sempre. Il caso di M.





M. è una ragazza di 18 anni. Mi contatta perché ogni sera si ritrova seduta sul letto a piangere, con la sensazione di non riuscire a respirare e con fitte intercostali, accompagnate da un forte vissuto di inadeguatezza, veicolato da pensieri intrusivi del tipo: “Sono malata mentalmente”; “Non sarò mai normale”; “Non avrò mai una vita felice”; “Sono condannata per sempre ad avere una testa che non funziona”.
Inoltre sostiene di avere dei gravi problemi di coppia

Mi richiamerà?





“Dottore, ora che le ho raccontato la storia di questa mia relazione travagliata, mi dica, lui tornerà? Mi richiamerà?”

Uomini che non vogliono una "storia seria"



Esco da una storia travagliata e in questo momento non voglio una relazione impegnativa

Quante donne hanno sentito pronunciare questa frase dall’uomo che stavano frequentando?

Magari hanno anche apprezzato la sincerità del discorso mentre si godevano una bella serata.



Ben presto lui sparisce per giorni o settimane: non si fa sentire, non risponde ai messaggi e, in quelle rare occasioni in cui si riesce a parlare, è molto freddo e resta sul vago circa la data di un prossimo incontro.
Tra una fuga e l’altra ricompare all’improvviso, come se niente fosse, con un bel regalo o una cenetta romantica.
E’ a questo punto che lei dimentica di colpo tutta la frustrazione e l’insoddisfazione di un rapporto che, fino al giorno prima, l’aveva vista attendere una chiamata che non arrivava.

Eppure attendeva con ansia il momento di parlargli di persona, per esporre il suo punto di vista.
Ma quando arriva l’occasione per il chiarimento, ecco che l’atmosfera è talmente magica che qualunque parola diventa superflua:
Non mi andava di rovinare la serata. Non c’era bisogno di parlare, ci siamo capiti guardandoci.
Dal giorno successivo, lui sparisce di nuovo. E il ciclo si ripete.

Per quanto possa sembrare paradossale, si tratta di una dinamica diffusa.
Molte donne rimangono intrappolate in rapporti ambivalenti che oscillano tra momenti di felicità e momenti di chiusura, freddezza, distacco e fuga.

In questa altalena di emozioni, il pensiero tende ad essere riparatore, nel tentativo di difendere l’investimento emotivo e allontanare lo spettro della possibilità di aver commesso un errore di valutazione affidandosi all’uomo sbagliato o, peggio ancora, la paura di rimanere single.
Si impiegano enormi quantità di tempo ed energie a domandarsi il perché di un tale comportamento e ad individuare delle risposte accomodanti, volte a normalizzare e giustificare la situazione:
Deve avere avuto un difficile rapporto con i genitori
La sua ex deve averlo ferito molto!
Come conseguenza implicita, si tenderà a dimostrare di essere migliori di chi lo ha fatto soffrire:
Non devo fargli pressioni. Devo mostrarmi più tranquilla e meno esigente.
Fino a sconfinare nei casi in cui lui non è più considerato responsabile delle sue azioni:
So che in fondo mi ama e vorrebbe stare con me, ma è spaventato. Devo aiutarlo a superare le sue difficoltà.

E’ bene sapere che non tutte le persone hanno la capacità di stabilire delle relazioni profonde e soddisfacenti con un altro essere umano: purtroppo, esistono individui che non hanno sviluppato una sana affettività o che semplicemente non riescono a gestirla.
Possono essere brillanti, affascinanti, intelligenti, professionalmente affermati e abili nel corteggiamento, ma la loro capacità di amare e di costruire una relazione risulta gravemente compromessa.
Questi uomini hanno gravi difficoltà con l’intimità e non si legano mai in modo totale e definitivo ad una persona.

Va chiarito inoltre che non si tratta di una caratteristica unicamente maschile, ma le dinamiche in questione sono molto più diffuse quando è la donna ad essere sedotta.


ALCUNI TRATTI CARATTERISTICI

Corteggiamento “ad impatto”
Nei primi incontri lui si mostra un perfetto principe azzurro: è pieno di slanci e di attenzioni, e sembra molto preso dalla sua donna.
La relazione appare da subito travolgente e passionale ma l’innamoramento non si trasforma mai in amore.
L’amore richiede infatti la capacità di vedere l’altro per quello che è e di accettarlo con i suoi pregi e i suoi difetti ed è una capacità che purtroppo in questi casi non è sviluppata.

Assenza di progettualità
La caratteristica distintiva di questi rapporti è la mancanza di una progettualità condivisa e di una crescita comune: anche se ci si frequenta da anni, il rapporto non evolve ma rimane a livello di una frequentazione casuale in cui è sempre lui a decidere i tempi e i modi dell’incontro.

Alla costante ricerca del “meglio”
Considerarsi i numeri uno, implica il circondarsi di persone “di un certo livello”.
In un rapporto di coppia questo si traduce nell’incapacità di accettare le piccole debolezze e i difetti della partner, che, per essere amata, deve adeguarsi a degli ideali di perfezione che non hanno riscontro nella realtà.
La continua ricerca del meglio conduce ad uno stato di insoddisfazione cronica.

Il fascino della conquista
Anche se possono essere convinti di cercare un rapporto duraturo e dichiarare di volere qualcosa di più del semplice sesso, quello che li motiva veramente è l’eccitazione e l’adrenalina della conquista.
Qualunque rapporto di coppia verrà giudicato deludente perché non può reggere il confronto con la relazione fatta di complicità assoluta, di passione folle, di emozione travolgente che si sperimenta nella fase dell’innamoramento e che sarà sempre ricercata nella donna che deve ancora arrivare.

Pretendono molto e danno poco
Non mi stancherò mai di ripeterlo: una relazione sana è quella che tende a soddisfare i bisogni di entrambi.
In questo caso invece, si assiste ad una relazione a senso unico e senza compromessi, modellata sulle esigenze di lui.
Incapace di empatia, non riconoscerà i bisogni della partner e vivrà ogni piccola richiesta come una coercizione, un tentativo di controllo e manipolazione.

Non si concedono mai fino in fondo
Deve ancora nascere la donna  che mi fa perdere la testa!
Se da un lato si desidera la vicinanza e l’intimità di una relazione amorosa, dall’altro c’è l’incapacità di tollerarla: l’intimità suscita un sentimento di oppressione, di ansia , di perdita della propria libertà che scatena un potente desiderio di fuga.
Incapaci di fidarsi dell’altro, non si concedono mai fino in fondo, preferendo mantenere un’immagine vincente e superficiale.


COME COMPORTARSI IN QUESTI CASI?

Per quanto si tratti di un profilo ben noto agli psicologi, va chiarito che non si può aiutare chi non vuole essere aiutato.
Personalmente ho lavorato con diversi uomini che credevano di non riuscire ad amare, ma il motivo per cui si erano rivolti a me è che vivevano con disagio la propria condizione.

Molte donne mi contattano facendomi sempre le stesse domande:
Perché lui si comporta così?
Come posso aiutarlo a cambiare?
A loro restituisco le stesse domande, invitandole ad assumere un’altra prospettiva:
Lei come ha reagito a tutto questo? Come spiega il proprio comportamento?
Chi tra i due vive con disagio questo rapporto? Chi sta rivolgendo domande ad uno psicologo? Chi sente bisogno d’aiuto? Chi vorrebbe un cambiamento?

Qualsiasi rapporto di coppia per poter funzionare dev’essere paritario nella distribuzione del potere decisionale:
Chi decide cosa fare e quando farlo?
Se la risposta a questa domanda è sempre “lui”, allora bisogna trovare il coraggio di essere oneste con sé stesse ed impegnarsi a realizzare l’unica soluzione possibile: uscire da questa situazione.


ERRORI DA EVITARE

Mancanza di visone globale nella valutazione del rapporto
Se lui fosse sempre freddo, scostante e insensibile, sarebbe facile chiudere la porta.
Ma poi arrivano quei momenti magici, dove lui diventa l’uomo da sempre desiderato e tutto sembra perfetto: tenerezza, coinvolgimento e passionalità portano ad un intesa quasi magica che diventa difficile da dimenticare.
L’errore che molte donne fanno è quella di legarsi ai momenti belli, sperando che con il tempo diventino sempre più frequenti e duraturi.

Eccesso di giustificazioni e falsi rimedi
Di fronte al comportamento ambiguo del partner, la donna commette l’errore di giustificarlo, di pensare che le sue fughe siano dovute soltanto alla paura di innamorarsi e che basterà essere paziente, comprensiva, non chiedergli niente e dargli tutto perché lui superi le sue paure e si leghi.
“Se faccio la brava, otterrò ciò che voglio”
“Non devo avere fretta”.

L’illusione di cambiare l’altro
Il primo passo per uscire da una relazione malata è riconoscerla e accettarla per quella che è realmente. Molte donne non sono innamorate dell’uomo che hanno accanto ma sono innamorate dell’idea dell’uomo che potrebbe diventare. Si tratta di un’illusione destinata a fallire.

Negare sé stesse e la propria sofferenza
Un errore che le donne fanno comunemente è quello di negare con sé stesse la sofferenza che provano nella relazione, cercando di convincersi che in fondo va bene così.
Ho sentito anche troppe volte il famoso discorso: “Nemmeno io voglio una storia seria. Mi godo i momenti belli e vivo il rapporto giorno per giorno”.
Raramente questo discorso è sincero: in una relazione non è possibile prendersi solo il bello, si prende tutto della persona con cui si sta, compresi gli aspetti problematici.
Allo stesso modo, non si può vivere un rapporto di coppia giorno per giorno se non c’è un progetto di vita ad orientarlo e sostenerlo.


RIPARTIRE DA SE’

Soltanto riconoscendo gli errori commessi ed imparando da essi si può fare un onesto bilancio della relazione per quella che è realmente nel presente e capire se valga la pena restare o cercare una relazione meno problematica e più appagante.

C’è un’enorme differenza tra conoscersi e frequentarsi: ci si può frequentare anche da anni ma sono le esperienze condivise che determinano una vera conoscenza.

Stare bene in un rapporto non significa dimostrare di essere sulla stessa lunghezza d’onda, capirsi al volo, avere feeling, se poi si vive con la costante paura di essere abbandonati.
La conquista della perfezione non ha mai reso felice nessuno e conduce al vuoto e alla solitudine.

La donna che si lascia catturare da tali fantasie, avrà l’illusione di essere vincente sul piano sociale e amoroso, mentre in realtà brillerà solo di luce riflessa. Anzi, sarà proprio lei a conferire ulteriore prestigio a colui che di questo si nutre.

Rinunciare ad esprimere sé stessi non è mai la cosa giusta da fare.
Uscite dall’angolo e non vergognatevi di dare voce ai vostri bisogni: non sono un segno di debolezza, ma le risorse da cui partire.
Non abbiate paura di rovinare la magia di un rapporto proponendo di fare qualcosa insieme.
La felicità è reale solo se condivisa!


Dottor Riccardo Cicchetti

Articolo pubblicato su L'AquilaOggi 

 
     

Quando rivolgersi allo psicologo



Capita a tutti nel corso della vita di attraversare periodi di particolare sofferenza legati ad uno specifico momento di crisi o al peso di vecchi problemi che non riusciamo più a sostenere da soli.
Tali situazioni possono divenire fonte di notevole stress e preoccupazione, e possono assumere, nella nostra percezione, dimensioni ancora più grandi di quelle reali, facendoci sentire impotenti, inadeguati, disorientati o spaventati, di fronte ad ostacoli apparentemente insormontabili.
Un primo valido supporto può venire senza dubbio da amici, familiari o colleghi di lavoro, a cui ci rivolgiamo per ricevere un sostegno o per chiedere un consiglio. Tuttavia i nostri cari possono aiutarci fino ad un certo punto: non possiedono una adeguata formazione clinica e la conoscenza tecnica di un professionista abilitato per un intervento specialistico, basato sulla formazione scientifica e sulla competenza.
 
Decidere di rivolgersi allo psicologo può essere allora una possibilità per comprendere in che modo i nostri stati d'animo, i pensieri e le emozioni siano collegati a situazioni reali che si stanno vivendo e sulle quali è possibile intervenire attivamente per migliorare significativamente la qualità della nostra vita.
 
Ci si rivolge allo psicologo nei casi in cui vi sia una difficoltà ad instaurare relazioni affettive significative, nei problemi relazionali al lavoro, nei problemi di coppia, nel disagio esistenziale, nei casi di ansia diffusa e problemi d'umore, nelle fobie, in periodi critici della vita, come un divorzio, una malattia, un incidente o la perdita di una persona cara. In generale consultare uno psicologo può essere importante in ogni situazione in cui c'è una sofferenza che ostacola la realizzazione dei nostri progetti e ci impedisce di guardare al futuro con serenità e consapevolezza dei nostri mezzi.
 
Tuttavia chiedere aiuto ad un professionista qualificato è talvolta una delle circostanze più difficili da realizzare. L'insensata paura di essere giudicati e il nostro istinto a sbrigarcela da soli ci portano a non chiedere aiuto nemmeno quando ne sentiamo l'esigenza.
Inoltre, nel pensiero comune, la figura dello psicologo è spesso associata ad una erronea concezione di "malattia mentale" e allo stigma sociale che da essa deriva.
Esistono infatti delle false credenze che a volte ostacolano la scelta di rivolgersi ad uno psicologo, che arrivano a sfociare in forti pregiudizi, quali ad esempio:


"La gente penserà che sono pazzo se vado da uno psicologo"


"Lo psicologo costa troppo, non me lo posso permettere"


"Gli incontri con lo psicologo andranno avanti per anni"
 
In realtà avvalersi della consulenza di uno psicologo non è un gesto folle o un lusso da non potersi permettere ma la soluzione più ragionevole di fronte a questo tipo di situazioni.
 
Riguardo ai costi, è opportuno considerare che disturbi quali stress o ansia hanno un effetto negativo immediato sulla salute fisica, sulla produttività lavorativa e sulla qualità delle relazioni affettive.
La spesa affrontata per la consulenza di uno psicologo è da considerarsi come un investimento su sé stessi che ha delle ricadute operative concretamente fruibili nel miglioramento della propria vita emotiva, di coppia, familiare, sociale e lavorativa.
 
Per quanto concerne la durata degli incontri, va sottolineato che la relazione psicologo-cliente è un processo che si basa sulla collaborazione e sullo scambio reciproco. Lo psicologo è un professionista orientato ai bisogni del cliente, con cui collabora nel raggiungimento di obiettivi concordati, quali la risoluzione di specifici problemi e il miglioramento globale dello stato di salute. Quindi gran parte del lavoro dello psicologo sta proprio nel "potenziare" la dimensione di autonomia e autorealizzazione del cliente, fornendo caso per caso gli strumenti più appropriati.
 
Rivolgersi ad uno psicologo può aiutare ad attribuire senso a vissuti, pensieri ed emozioni che spesso sembrano non averne, può farci scoprire potenzialità che non credevamo di avere, può darci nuove chiavi di lettura della nostra storia personale e del nostro eventuale disagio, può permetterci di aumentare le nostre competenze relazionali e comunicative.
Tramite la consulenza di uno psicologo si può avere accesso alle proprie risorse e imparare ad utilizzarle in modo appropriato per gestire autonomamente le situazioni di crisi e formulare nuovi obiettivi di vita verso una completa realizzazione di sé.
 
E' importante porre l'accento sul diritto alla salute e al benessere psicologico, personale, sociale, affettivo e lavorativo, di cui tutti avremmo bisogno ma che molti, purtroppo, non hanno ancora il coraggio di concedersi.


     

Lo Psicologo e la cura dell' Ansia


L'obiettivo di un intervento psicologico non può essere quello di eliminare l'ansia: oltre ad essere impossibile da realizzare, sarebbe altamente disfunzionale al nostro benessere psicofisico e sociale.
Per quanto dolorosi e invalidanti possano essere i sintomi dell'ansia, lo psicologo ha il compito di aiutare la persona ad accogliere, ascoltare, leggere e interpretare tali segnali.
Ogni sintomo ha un suo significato ancorato al contesto in cui il soggetto è inserito. E’ importante recuperare l’oggetto reale delle nostre paure e ricollegarlo a situazioni, esperienze, ricordi e persone che fanno parte della nostra vita.
 
Nel caso dell’ansia è opportuno lavorare su sé stessi nella direzione di imparare a non essere pretenziosi e intransigenti. Ognuno dovrebbe vivere il proprio presente in relazione alle risorse e ai limiti personali e ambientali, che in altri termini significa fare le cose per come si è in grado di farle non per come dovrebbero essere fatte. In questo senso la sospensione dell’azione ci può regalare uno stato di pace.
La soluzione non sta nel soddisfare le proprie (e degli altri) aspettative a tutti i costi, ma nell’essere presenti e consapevoli nelle azioni che intraprendiamo.
 
Soddisfare le aspettative significa sforzarsi di voler essere un modello di “bravura” agli occhi degli altri, un punto di riferimento, una persona sulla quale poter contare, che sa sempre cosa fare. La preoccupazione dominante diventa essere in grado di accontentare tutte le richieste da parte delle persone che si amano. Assolvere a questa missione può farci perdere il contatto con i nostri veri desideri, che tendiamo a trascurare fino a non riconoscerli più, fino a considerarli come un elemento di disturbo, una minaccia per la nostra stabilità sociale e affettiva.
In realtà è proprio quando ci imponiamo di andare avanti nella stessa direzione a tutti i costi che la nostra psiche si ribella  e richiama tutta la nostra attenzione attraverso l’esplosione dei sintomi.
Dobbiamo accogliere l’ansia come un consiglio che ci viene dato dal nostro corpo che in qualche modo non vuole più sottostare a quel modello di perfezione che ogni giorno ci sforziamo di essere.
 
Recuperare un contatto con noi stessi, con i nostri limiti e le nostre imperfezioni, equivale a recuperare un rinnovato senso di realtà, di pace interiore, di autoefficacia. Significa tornare ad essere protagonisti consapevoli della nostra esistenza.
 
Non si tratta di un processo semplice da realizzare. Le maggiori difficoltà si riscontrano maggiormente nel fatto che, per quanto dolorosi e faticosi da mantenere, gli equilibri consolidati nel tempo, compresi i sintomi e i meccanismi di difesa, presentano un vantaggio secondario: ci proteggono dall’angoscia che scaturirebbe dall’idea di cambiare, di mettere in discussione l’immagine che si ha di sé stessi e degli altri. Si ha paura di restare soli, di non essere più amati e apprezzati da nessuno.
In tal modo si continuano a impiegare notevoli energie nel mantenere la propria esistenza il più possibile conforme ai valori collettivi che finiscono col diventare rappresentativi ed esaustivi della nostra intera persona, spesso in modo del tutto inconsapevole.
 
L'impressione che gli altri hanno di noi è sicuramente un elemento molto importante nella società umana, ma non dobbiamo permetterci di vivere solo per poter dimostrare di essere come gli altri si aspettano. Dobbiamo dare il giusto peso soprattutto ai nostri bisogni interiori, arricchirci di quelle soddisfazioni che magari per altri contano poco ma che per noi sono linfa vitale. Abbandoniamo l’idea di dover apparire per poter essere, svestiamoci da quella maschera sociale che giorno dopo giorno diventa sempre più pesante da indossare, diamo più spazio ai nostri desideri, prestiamo un ascolto costante ai nostri bisogni, non temiamo di metterci in gioco e poniamoci nel mondo con una nuova consapevolezza di noi stessi, pronti a nutrirla e a sostenerla entro un processo di continua riscoperta.


Ansia: definizione e significato



Sigmund Freud definiva l'ansia come un affetto dell'IO.
L'ansia è un segnale che vuole venire a contatto con la nostra consapevolezza, con la nostra coscienza, per comunicarci qualcosa che non sempre siamo in grado di decifrare spontaneamente.
 
Normalmente funziona da richiamo per la nostra attenzione, ci mette in uno stato di attivazione nelle situazioni di pericolo, acutizza i nostri sensi con la funzione naturale di aiutarci a migliorare le prestazioni e a realizzare obbiettivi a volte indispensabili per la vita stessa. Non c’è da stupirsi quindi che accompagni l'uomo dai tempi più antichi, dove un ambiente intriso di minacce richiedeva sensi acuti e prestazioni elevate per fronteggiare efficacemente situazioni di pericolo o di caccia per la sopravvivenza e l'autosostentamento.
 
Entro una certa soglia infatti l'ansia migliora le prestazioni (tanto che si parla di ansia positiva o ansia di adattamento). Quando però si supera una certa soglia ovvero il meccanismo di risposta di adattamento continua a persistere anche in assenza di esposizione a situazioni ambientali ansiogene, si parla di un’ansia patologica, caratterizzata da uno stato permanente di tensione, che compromette le capacità operative e di giudizio, facendo precipitare le prestazioni del soggetto e accompagnandosi a sensazioni di disagio e sofferenza.
 
Nel corso degli anni le civiltà si sono evolute e l'attenzione dell'uomo si è spostata dalla sopravvivenza vera e propria alla ricerca del successo personale e dell'affermazione sociale.
Ciò su cui ci si confronta e che assorbe sempre più l'impegno dell'uomo moderno è l'idea del successo legata al lavoro, al potere economico, al possesso di beni di consumo (casa, auto, abbigliamento, tecnologie domestiche, viaggi) che rischia con estrema facilità di essere estesa anche alla dimensione affettiva: famiglia, coppia, amici.
Entro quest’ottica i ritmi di vita crescono freneticamente, l'azione lascia poco spazio alla riflessione se non attraverso pensieri  standardizzati del tipo: "devo impegnarmi di più”, “sto andando bene”, “sto andando male”, “non sono sufficientemente bravo”, “sono più in bravo del mio collega”.
Quando questi diventano gli unici pensieri attorno a cui gira la nostra esistenza, ecco arrivare l'ansia, sottoforma di insinuante paura di perdere tutto. L'ansia di non farcela, di rimanere indietro, di venire tagliati fuori.
Le preoccupazioni diventano ossessioni, fantasmi, oggetti interni persecutori,  che ci invadono anche nei momenti  e nelle situazioni inaspettate, ostacolando le attività della vita quotidiana.
La comparsa dell’ansia allora rappresenta il segnale interiore che ci spinge a fermarci a riflettere sul senso delle nostre azioni, dalle quali siamo stati evidentemente sovrastati. Al di là del livello delle nostre prestazioni e dei traguardi di vita raggiunti, l'ansia svolge comunque la sua funzione determinante: mette in discussione le nostre azioni automatizzate e ci obbliga al confronto con noi stessi.
 
L'ansia nasce in conseguenza a un modello culturale (individuale e sociale) del non volersi mai fermare a riflettere, perché fermarsi è una perdita di tempo, un lusso che non possiamo concederci, perché chi si ferma è perduto, perché noi dovremmo essere sempre al posto giusto nel momento giusto e sapere sempre cosa fare. L’ansia ci ricorda che tutte queste sono solo fantasie, false strategie, agiti emozionali, che ci danno solo l’illusione di essere padroni della nostra vita ma a lungo andare ci consumano dentro e ci impediscono di vivere in una dimensione di equilibrio e benessere.
L'ansia serve a disintegrare tale illusione, a spazzarla via e a metterci in condizione di fare una pausa, tirare un lungo respiro e confrontarci con noi stessi entro un contesto riorganizzato.
Allora potremmo realizzare di condurre una vita che non sentiamo più nostra, che ci sembra sprecata; perché non siamo più in grado di recuperarne il senso, perché non ci sentiamo più utili; le nostre azioni potrebbero sembrare non più necessarie e senza una meta, senza uno scopo chiaro e condiviso dalla nostra psiche.
L'ansia è il segnale che ci stiamo sforzando di essere quello che in fondo non siamo.

     

Donne e Autostima - Seminario Gratuito





Storicamente la donna è stata relegata in secondo piano nella società.

Da sempre ha dovuto confrontarsi con i condizionamenti e le pressioni di stereotipi che le imponevano un modello di vita predeterminato, e che sono ancora di estrema attualità.

Dall’educazione ricevuta nell’infanzia alle esperienze di vita adolescenziali ed adulte, la donna deve confrontarsi con un potere che tende a controllarla, a dominarla, e che ha volte finisce per schiacciarla, lasciandole ferite profonde.

L’incontro è rivolto a tutte quelle donne che hanno conosciuto il sapore amaro della svalutazione e del senso di impotenza, ma anche a coloro che vivono già in armonia con sé stesse e hanno semplicemente voglia di migliorarsi ancora.

L’unico requisito fondamentale per la partecipazione è credere di meritare di essere felici affermando il proprio diritto di esistere.

Verranno analizzate le principali dinamiche che conducono alla perdita di autostima nella donna e saranno forniti degli strumenti per sviluppare risorse e competenze personali.

Conduttore: Dott. Riccardo Cicchetti
Sede:  Studio Altea - via Vincenzo Cesati, 7 - Roma
Info e prenotazioni: 347 4896534